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MONSUMMANO TERME - Resterà aperta fino al 13 marzo, presso il Museo d’Arte Contemporanea di Monsummano, la mostra di incisioni di Lucian Freud ed Emilio Vedova, due maestri che hanno fortemente segnato l’arte europea del Novecento. Molto diversi nello stile, Freud e Vedova risultano incredibilmente simili nella poetica, che esprime il disagio di una generazione che ha vissuto la carneficina della Seconda Guerra Mondiale e gli orrori delle dittature nazi-fasciste.
Lucian Freud, nato in Germania nel 1922 ed emigrato nel Regno Unito nel 1933 per sfuggire alle persecuzioni naziste, è erede dell’Espressionismo e della Nuova Oggettività tedesca. Suo nonno è Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, che ha determinato una svolta nell’arte del Novecento, rivelando il lato oscuro della coscienza e le pulsioni che orientano le nostre azioni. Suo padre, invece, è l’architetto Ernst Freud, che ha aderito agli ideali razional-funzionalisti della Bauhaus e li ha esportati a Londra, dove ha realizzato la lineare Belvedere Court di Barnet.
Le avanguardie tedesche, dunque, costituiscono i fondamenti culturali del giovane Lucian, che stilisticamente rinnova il travagliato espressionismo di Kokoschka e la cruda, drammatica oggettività di Grosz e Dix. Nelle incisioni esposte a Monsummano, l’artista rappresenta – senza alcuna mistificazione o compiacimento formale – un’umanità sconfitta, umiliata, senza più ambizioni, che non conosce il significato della vita e non lo ricerca, ma si lascia vivere senza ideali. Opera emblematica della sua volontà di “intensificare” la realtà è la Grande testa, che esprime – nell’insistita goffaggine del volto, nelle marcate deformazioni anatomiche, nella sofferta espressività dello sguardo dagli occhi spenti e offuscati – tutta la frustrazione dell’uomo “postbellico”. Il tema del brutto, specchio di questa umanità degradata, si ritrova nel corpo goffo e sgraziato della Ragazza che si regge un piede, oppure nel volto cupo e deforme di una fanciulla, che l’artista, provocatoriamente, denomina Bella. Le ombre dense e i robusti contrasti chiaroscurali contribuiscono a sottolineare la pesantezza dei corpi, che sembrano caduti al suolo come macigni, ormai privi di forza e di controllo. E la memoria storica ci riporta alla mente capolavori del Seicento italiano, come la Morte della Vergine di Caravaggio, dal ventre gonfio e dalle membra pesanti, o la Maddalena assunta di Lanfranco, dal corpo flaccido e goffo, che gli angeli faticano a sostenere.
Invece Emilio Vedova, veneziano, esordisce negli anni’30 con audaci vedute architettoniche, che si connotano per il carattere visionario, accentuato da prospettive angolate e brucianti chiaroscuri, resi con brusche sciabolate d’inchiostro. Nel corso degli anni ’40 sperimenta un linguaggio cubista dal contenuto sociale, che trae ispirazione dal celebre Guernica di Picasso. Da qui approda all’astrazione ed infine all’action painting, a seguito di un soggiorno a New York, nel 1951, dove entra in contatto con la rivoluzionaria pittura di Pollock. Da quel momento, Vedova aggredisce la tela con impulsività, stende il colore con energiche pennellate che lasciano la superficie ruvida, striata come il terreno appena arato, ma pronto ad accogliere il seme della vita. La sua opera diventa materia viva, pulsante, organica: il corpo fluido della pittura che scorre sulla tela, sospinta da una passione incontenibile, ritrova la sua anima nella luce che penetra nei pigmenti e svela profondità inaspettate. L’energia delle pennellate informali si traduce, nella produzione incisoria, nella forza esercitata dalle mani per imprimere il segno sulle matrici di pietra o di zinco.
In Immagine del tempo, Vedova rappresenta la storia come un moto convulso, un processo caotico e irrazionale che esclude ogni valore, nesso logico, relazione causale. E il pensiero corre, ancora una volta, alla Seconda Guerra Mondiale, all’Olocausto, alle persecuzioni etniche che, dall’Europa all’Estremo Oriente, hanno insanguinato il mondo e azzerato millenni di civiltà. Altra opera emblematica è Rottura, che allude, attraverso l’imposizione di due rette convergenti su una congerie di segni informali, alla strenua opposizione della ragione alle forze irrazionali, la cui degenerazione può generare violenza. La linea retta, che assume una sorta di ebbrezza luminosa nelle opere degli anni ’70, è sintomo di una ritrovata stabilità, un ritrovato equilibrio interiore che stempera gli umori in una definizione quasi architettonica della superficie.
La mostra è curata da Paola Cassinelli e Marco Giori, nell’ambito del 9° Premio Internazionale Biennale d’Incisione, che ha messo a confronto le opere di 84 studenti, selezionati in tutte le accademie italiane di belle arti. Il premio è stato assegnato a Giovanni Timpani, allievo dell’Accademia di Napoli, che ha presentato un intenso ritratto del padre, memore del naturalismo caravaggesco nella tecnica luministica e nella cruda rappresentazione delle mani e del volto.

Marco di Mauro


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