Mesenotizie la voce delle province

Uzzano - Riceviamo da Franca Trampi, presidente di Gocce di Vita OdV, la lettera di Matteo, un giovane di 30 anni che ha trascorso due mesi a Tambobamba, nella casa di accoglienza Casairis, nella sua prima esperienza in Perù con i volontari e i bambini assistiti dall'associazione.

SENZA UN PONCHO A TAMBOBAMBA
e una pioggia di vita

Del risveglio ricordo un nugolo di bambini che si riversano nel comedor, e poi rallentano, si avvicinano timidamente ai dottori, misurandoli dalla testa ai piedi come se fossero apparizioni in technicolor, di un brillante azul-gocce-di-vita. Poi con l'impaccio del "proviamo a vedere se sono reali", si danno il turno per abbracciarli, chi alla vita, chi a una gamba, chi non ci arriva e si lascia arruffare i capelli. "Buenos dias doctor Pietro, buenos dias doctora Franca."
Al primo sguardo son davvero minuscoli e indistinguibili, con gli occhi leggermente a mandorla e il nasetto un po' appiattito, la carnagione brunastra e i capelli scuri e lisci. Alcuni visi sono più appuntiti, altri più paffutelli. Potrei prenderne una decina divisi a coppie e confonderli per fratelli e sorelle.
Con noi invece indugiano, ci spediscono sguardi esplorativi per appurare la bontà delle nostre grandi e ingombranti figure, ci circondano pian piano prima con i loro occhi acquosi e poi con le loro piccole morbide manine. Al che sento irresistibile la necessità di mettermi in ginocchio e connettere il mio sguardo con il loro, per permettere un abbraccio pieno di tutto il tenero che mi tirano fuori.
Sono un branco di cuccioli, ma non sono tutti minuscoli, chiaro. Poco più in là quelli più grandicelli trasudano imbarazzo: una mano a mascherar la fronte, la punta del piede che cerca l'uscita, movimenti che eludono il confronto. E quando si sentono indirizzare il nostro saluto, "..Buenas!" replicano prontamente con un fugace guizzo dello sguardo, per poi tornare al loro naturale riserbo. Avremo tutto il tempo di rompere il ghiaccio.
Un viaggio non programmato, inaspettato, capolinato all'improvviso, e che in un baleno ha conquistato la cima dei nostri pensieri: ci sentivamo pronti a qualsiasi sorpresa o strapazzamento, qualsiasi strada di ciottoli e fango, di qualsivoglia periferia del mondo, ma forse non ci aspettavamo quello che abbiamo vissuto, che in una certa fortuita misura, ci ha lasciato in bocca il piacevole sapore della prima volta. È stata una prima volta provare il trasporto emotivo con cui questi bimbi ci hanno accalappiato, con la forza dei loro sorrisi e del loro affetto disarmante. Tutto ciò ha significato lasciarsi andare all'abbrivio della marea: ricevere le loro attenzioni restituendo premure, invitarli al gioco accogliendo il loro attaccamento.
Ma per me e Sara l'hogar Arcobaleno non è stato solo una prima esperienza, di quelle che col tempo si illuminano come poche altre nella casa dei ricordi. È stata specialmente un'esperienza che ci ha dato conferma di una semplice cosa: che donare il proprio tempo per inspirare gioia negli altri può regalare a noi stessi una forma di contentezza, di pienezza schietta e primitiva. Il che secondo i canoni comuni è un attimino contro-intuitivo: invece che seguire una ricerca egoistica del momento felice, perché non provare a passare prima dalla felicità dell'Altro?
È il giorno dopo che, finito di pranzare, affrontiamo la discesa lungo il rio Palccaro, con gli stomaci pieni. Non penso di aver mai visto così tanti bambini entusiasti di camminare, di mettere il naso fuori dal cancello: sono scatenatissimi, corrono avanti e indietro per il sentiero, mentre noi due fatichiamo a tenerli dietro con la camera accesa. Sono un portento. Esplorano con gli occhi e con il tatto e con l'olfatto, incuriositi dalle foglie degli alberi, dagli insetti alati, dal modo in cui le pietre rotolano giù per la scarpata. Vorrei subire metà del loro incanto, vorrei metà del loro fiato andino.
Il sentiero poi scende giù in un boschetto lungo il fiume. Lì la mandria parte a fare caroselli in lungo e in largo, a saltare cavalcioni sugli esili fusti dei giovani pini, a lanciarsi i frutti dell'agave al grido di "bananaaa!". Cerco di sintonizzare il microfono sul loro canale di baldorie, ma registro solo un gran baccano. Mentre risaliamo pietra dopo pietra il ruggente corso del fiume, il temporale ci insegue alle spalle. Cerchiamo di allungare il passo e mettere ai bimbi un po' di fretta, ma è come dire all'acqua che si sta per bagnare. Alla fine la scansiamo di un soffio, sebbene a loro sembri quasi... dispiacere un po'.
Avevamo per la testa di dare un'occhiata in giro per il Perù, una volta concluso il periodo all'hogar. Ma non avevamo messo in conto che nel pieno del trambusto sociale e delle proteste, chi ci avrebbe fatto rimandare e rimandare la partenza non sarebbero state le proteste del popolo che bloccava le strade, ma le proteste dei bimbi che ci chiedevano di restare. E onestamente da parte nostra sentivamo una riluttanza indigesta a lasciare questa famiglia che avevamo imparato a conoscere. Alla fine però il momento di partire è arrivato, così come l'ultima pizzata insieme, l'ultima lasagna e l'ultima lezione di inglese, l'ultimo disegno e le ultime acrobazie in giardino, i bimbi han ripreso la scuola e anche questa speciale estate invernale è volta al termine.
A noi sta per scadere il maledetto visto, pequeñitos, dateci un po' di tempo per rientrare dalla Bolivia e torneremo a salutarvi. Già ci mancate!!


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